L’impatto della pandemia sui diritti delle donne e sulla loro partecipazione ai processi di pace

L’impatto della pandemia sui diritti delle donne e sulla loro partecipazione ai processi di pace

di Marta Panaiotti, Collaboratrice di ricerca presso la Sapienza Università di Roma

In questi primi nove mesi di emergenza sanitaria, la diffusione del COVID-19 a livello globale ha prodotto effetti drammatici sull’intera popolazione mondiale, con conseguenze particolarmente preoccupanti anche sulla vita e i diritti delle donne nelle aree di conflitto, e – in particolare – sulla loro possibilità di svolgere un ruolo attivo nelle sedi decisionali.

Come dimostrano ricerche condotte dall’UN Women, in contesti già problematici, segnati da conflitti armati, violenza e diffuse violazioni dei diritti umani delle donne, queste ultime hanno subito gravi restrizioni nell’accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, ai mezzi di sostentamento e ad altri servizi essenziali, venendo così maggiormente esposte a malattie e situazioni di vulnerabilità. Anche l’aumento della violenza domestica e il considerevole coinvolgimento di donne e ragazze in attività socio-assistenziali hanno contribuito ad accrescere le fragilità di questa categoria durante l’attuale pandemia. Nel caso di donne rifugiate, sfollate o provenienti da contesti rurali, il processo di marginalizzazione è stato aggravato dall’impossibilità di reperire informazioni affidabili, nonché dal mancato accesso a tecnologie considerate essenziali.
Il quadro appena descritto è stato esacerbato anche dal taglio delle risorse destinate alle attività di advocay e progettazione per la promozione della partecipazione femminile alla vita politica e sociale, con possibili e gravi conseguenze intergenerazionali in termini di limitazione dei diritti delle donne in settori fondamentali come l’educazione e l’empowerment economico.

In un contesto simile, la tutela e la promozione dei diritti delle donne, dovrebbero essere considerati più che mai una priorità. A partire dai processi di pace, lo sforzo dovrebbe essere quello di includere disposizioni in materia di parità di genere negli accordi sui cessate-il-fuoco, di introdurre la prospettiva di genere in fase negoziale, di ricostruzione e stabilizzazione post-conflitto come conditio sine qua non per la costruzione di società inclusive, giuste e pacifiche. Bisogni e prospettive di genere, quando correttamente considerati e inseriti negli accordi pace, hanno dimostrato di garantire, tra l’altro, una maggiore possibilità di successo degli stessi.

Per superare queste nuove-vecchie barriere all’inclusione e alla sicurezza delle donne che l’emergenza sanitaria ha contribuito a rinsaldare, diverse associazioni femminili hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di assicurare alle stesse assistenza umanitaria, di incentivare lo scambio e/o il rilascio di prigionieri, di garantire l’accesso alla sanità pubblica, alla protezione sociale e all’assistenza economica a tutte le categorie, come anche quella di favorire il coinvolgimento delle donne peacebuilders nei processi decisionali relativi, non solo alla risoluzione dei conflitti amati, ma anche alla progettazione e all’ implementazione delle misure anti-COVID.
Si tratta di iniziative fondamentali che garantirebbero una maggiore protezione dei diritti delle donne e delle loro comunità di appartenenza in un momento storico che sta contribuendo ad esasperare le disuguaglianze di genere e a indebolire i meccanismi di risposta alle stesse in situazioni di conflitto.

Cionondimeno, la crisi attuale può essere considerata anche come un’opportunità per dare nuovo impulso alla rinegoziazione dei contratti sociali e per collocare al centro dell’agenda internazionale la questione della partecipazione attiva delle donne alla vita pubblica e ai processi di peacebuilding.

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